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sabato 18 marzo 2023

Burioni ha ragione. Purtroppo per lui.

 


(C'è un altro tweet molto simile attribuito a Burioni che gira sul Web. Sembra che entrambi siano autentici, anche se non ne possiamo essere sicuri al 100%. In ogni caso, sono in linea con il pensiero e il modo di fare del personaggio e non sono stati smentiti)


Il tweet di Roberto Burioni riportato qui sopra è andato virale su molti social, dove è stato commentato con insulti e accidenti all'autore. La reazione del pubblico è comprensibile di fronte a un'affermazione che contrasta così platealmente con la linea che Burioni e altri avevano sostenuto fino ad ora, ovvero "fidatevi della scienza, sappiamo noi cosa fare." Invece, questo tweet è una discreta zappata sui piedi (o lesione ad altre parti delicate del corpo) per tutti i televirologi che hanno imperversato negli ultimi 3 anni. 

Burioni si trova in evidente difficoltà, costretto in difesa, cercando di giustificare i suoi molteplici errori e contraddizioni. Normalmente, lui usa la tecnica del "blastaggio," consapevole di generare una forte reazione negativa. La mette in conto: è un modo di far passare un certo messaggio generando polemiche. Ma è una tattica che si può usare soltanto in attacco, non in difesa,

Il tweet si limita a dire esplicitamente una cosa che è ben nota a tutti quelli che lavorano nel campo della ricerca, anche se risulta sorprendente per il pubblico in generale. Non c'è quasi nessun controllo sulla validità dei dati e dei risultati pubblicati su una rivista scientifica, anche fra quelle di "alto livello." Vi passo, più sotto, una discussione sull'argomento da parte di  "Birbo Luddynski." Scusate il linguaggio scatologico, ma la sua descrizione di come funziona la scienza è valida, perlomeno nel complesso. 

In breve, comunque, Burioni ha ragione quando dice che il meccanismo di pubblicazione dei risultati di una ricerca si basa quasi completamente sulla fiducia. L'editore scientifico può solo decidere se il lavoro gli sembra adatto alla rivista, mentre i "referee" che sono incaricati di una forma di controllo qualità possono solo giudicare se le conclusioni degli autori sono consistenti con i dati riportati, e poco più. 

Quindi, uno scienziato può imbrogliare? Certamente si. Come editore di una rivista e referee di tantissimi articoli mi sono capitati spesso casi in cui sospettavo un imbroglio, in alcuni casi con una evidenza lampante. Ma non è nei poteri dell'editore, e neppure del referee, di accusare un autore di aver falsificato i dati o di esserseli inventati di sana pianta senza prove precise. Per cui, anche un articolo sospetto può essere pubblicato senza grossi problemi. Forse poi qualcuno andrà a verificarne la correttezza rifacendo le misure, ma è una cosa rara.  

Quindi non mi sono stupito quando uno degli epidemiologi più famosi al mondo, John Ioannidis, ha pubblicato un articolo con il titolo "perché la maggior parte dei risultati pubblicati sulle riviste scientifiche sono falsi." Secondo Ioannidis, un buon 50% degli articoli pubblicati mostrano segni di manipolazione dei dati, hanno difetti di impostazione, o le loro conclusioni non sono riproducibili. Altri hanno valutato una percentuale minore di falsificazioni e il dato si riferisce più che altro alla ricerca in campo medico. Ma, comunque sia, quando leggete un articolo scientifico, c'è una probabilità significativa che gli autori vi stiano imbrogliando. 

Ma perché gli scienziati imbrogliano? Per tante ragioni: prestigio, carriera, soldi, e -- certe volte -- pura incompetenza. Alle volte anche per disperazione, quando la scelta per un giovane ricercatore è fra tirar fuori "qualcosa di pubblicabile" e il licenziamento. In ogni caso, pensate al conflitto di interesse che appare automaticamente quando uno scienziato accetta di essere pagato da una ditta farmaceutica per testare l'efficacia di uno dei loro farmaci. Come minimo, sono decine di milioni di euro in ballo che dipendono dai risultati del test. Vi stupireste se lo scienziato è tentato di dare un "aggiustatina" ai dati per far sembrare il farmaco più efficace di quanto non sia in realtà? Oppure che sia tentato di non controllare bene un set di dati troppo belli per essere veri? Oppure che faccia capire ai suoi sottoposti che si aspetta che venga fuori un certo risultato e non un altro?

Tornando a Burioni, nel suo tweet lui sta semplicemente cercando di giustificare qualcuna delle sue affermazioni avventate (per non dir di peggio) espresse durante la pandemia, dicendo "non è colpa mia, io mi fidavo di quello che leggevo sulla letteratura scientifica." Ma si sta dando la proverbiale zappata sui piedi. 

In primo luogo perché arriva soltanto ora a dirci che i risultati scientifici vanno presi con un certo scetticismo, mentre prima ci presentava "La Scienza," ovvero le sue (di Burioni) affermazioni, come incontrovertibili. In secondo luogo perché si auto-accusa di non essere in grado di valutare criticamente quello che legge. Invece, un vero professionista di solito è in grado di "fiutare" un imbroglio quando lo vede. Dovrebbe perlomeno evitare di descrivere certe cose sospette come vere finché non ci sono prove indipendenti a sostegno. A meno che non ci sia un conflitto di interesse, ovviamente. 

E così è andata. La scienza sta percorrendo la sua spirale di declino diventando sempre di più una struttura auto-referenziale che produce più che altro cartaccia inutile, quando non dannosa o addirittura letale. Prima o poi, i decisori e il pubblico dovranno anche accorgersi che li stanno imbrogliando, ma ancora ci vorrà un po' di tempo. A quel punto, ci vorrà una riforma radicale che mandi a casa gli imbroglioni, i profittatori, e gli incompetenti della scienza. Con il rischio di prendersela con quelli, e ce ne sono ancora tanti, che cercano di fare del loro meglio per essere scienziati onesti. Li si trovano specialmente in campi dove non girano tanti soldi, come l'astronomia, lo studio degli ecosistemi, e altri. Ma, anche lì, la corruzione avanza.  

Nel frattempo, fatevi due risate (amare) con Birbo Luddynski. Come dicevo prima, è un po' esagerato nella sua critica, ma nel complesso ha ragione. 




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La scienza è una montagna di merda!





di “Birbo Luddynski”

Premessa

La Scienza non è il metodo scientifico. La “Scienza” – maiuscolo tra virgolette – è oggi una istituzione, apolide e transnazionale, che si è appropriata fraudolentemente del metodo scientifico, ne ha fatto il suo monopolio esclusivo, e di questo si serve per taglieggiare la società – in proprio o per conto terzi – dopo essersi autoproclamata novella Chiesa della Certificazione del Vero [1].

Un elettricista che cerca di individuare un guasto o un cuoco che mira a perfezionare una ricetta, stanno applicando il metodo scientifico, senza neanche sapere cosa sia, e funziona! Ha sempre funzionato da migliaia di anni, prima cioè che qualcuno ne codificasse l’algoritmo, e continuerà a farlo, nonostante i moderni inquisitori.

Chi scrive non è un erudito, non cita fonti per convinzione ideologica, ma ha imparato in tenera età come si scrive “epistemologia”. Ha poi sguazzato per anni nei liquami dell’associazione a delinquere di cui sopra, fino a quando, senza esser riuscito ad assuefarsi al mefitico fetore, non ha trovato una onorevole via d’uscita. Popper, Kuhn, Feyerabend, sono stati tutti pensatori che avevano compreso appieno la perversione di certi meccanismi istituzionali, ma che non avrebbero neanche potuto immaginare che il marciume avrebbe dilagato in modo così incontrollato e tirannico nella società, fino al punto che uno scienziato possa raggiungere il potere di impedirti di uscire di casa, o di possedere un’automobile, o di importi di mangiare i vermi. A parte TK, lui aveva capito tutto, ma questo è un altro discorso.

In questo scritto non si parlerà del ruolo che ha la scienza nella società contemporanea, del suo progressivo divenire culto, del progressivo erodere degli spazi di libertà e di partecipazione civile in suo nome. Non si parlerà del rapporto coi media, e del potere che hanno i questi di far passare gli sproloqui di un mediocre professore borioso per verità acclarate. Non si parlerà quindi delle massime cariche dello stato che dichiarano guerra all’antiscienza, che dichiarano vittorie a plebisciti mai indetti, dove la gente viene portata alle urne a ricatti e bastonate.

Non si parlerà di come la “vera scienza” – ossia quella che afferisce al rispetto del metodo scientifico – sia violentata dal virologo internazionale e dai CTS del mondo, che prendono decisioni incoerenti, letteralmente a cazzo di cane, e pretendono che chiunque si adegui senza dubitare.

Non si parlerà neanche della tendenza a intavolare sterili dibattiti internettiani a partire dall’articolo che ci dà ragione sulla rivistona Lancette o Brianza Medical Journal, o Manure. Né della ovvia tendenza a fare raccolta ciliegie da parte del deboonker del momento. “Eh ma il professor Giannetti di Fortestano è un noto cialtrone, lol”. I perculatori d’ufficio dell’ipse dixit sono oggi dei meticolosi applicatori di una rigorosa gerarchia delle fonti e delle opinioni, basate su improbabili quanto rigorosi ranking di prestigio qualitativi, o peggio altrettanto improbabili quanto arbitrari indici bibliometrici quantitativi.

Qui troverete raccontato il motivo per cui la scienza non è ciò che dice di essere, e proprio per questo motivo ha assunto tale ruolo nella società.

Tutto quello che trovaterete qui scritto è ampiamente risaputo e documentato in libri, longform, articoli su settimanali divulgativi e persino articoli su riviste peer-reviewed (LOL). Googlate “publish or perish”, “reproducibility crisis”, “p-hacking”, “publication bias”, e decine di altri termini correlati. Io di fonti non ne fornisco, perché come ho detto è contrario alla mia ideologia. Il valore aggiunto di quanto vado a scrivere è una descrizione immediata, sicuramente partigiana e senza censure, dei meccanismi osceni che pervadono tutto il mondo scientifico, dal reclutamento degli studenti di PhD alle pubblicazioni.

Non c’è inoltre nessuna “vera scienza” da salvare, in contrapposizione a “lascienza”. La tesi di questo scritto è che la scienza è strutturalmente corrotta, e che i conflitti di interesse che la attanagliano sono così profondi e pervasivi, che solo una radicale ricostruzione – dopo la sua demolizione – dell’istituzione universitaria può salvare la credibilità di una ristretta cerchia di studiosi, quelli che cercano faticosamente, onestamente e umilmente, di aggiungere tasselli alla conoscenza del Creato.


Lo scienziato e la sua carriera

Per “scienziato” oggi si intende un ricercatore, impiegato a vario titolo presso università, centri di ricerca pubblici o privati, think tanks. Quella dello scienziato è una carriera completamente diversa da quella di ciascun lavoratore, e ricorda quella del cursus honorum della classe senatoria romana. Il cursus honorem della soia. Il CV di uno scienziato è diverso da quello di tutti gli altri lavoratori. Tra parentesi, la cosa più difficile per uno scienziato è compilare un CV intellegibile al mondo reale, qualora volesse tornare a guadagnarsi da divere onestamente fra i comuni mortali. Provate a fare un Europass dopo sei anni di post-doc LOL.

Lo scienziato è uno studente modello, nel corso di tutta la carriera scolastica prima e universitaria poi. Studente modello significa disciplinato, con voti negli ultimi percentili dei test standardizzati, e anche buone capacità relazionali. Riesce a farsi notare durante gli ultimi anni dell’università (cosiddetta “undergraduate”, che però stranamente in Italia è la magistrale o specialistica o come cazzo si chiama oggi), fino a trovare la raccomandazione (letteralmente) da parte di un professore per iscriversi a un programma di PhD, o dottorato, come si chiama fuori dall’Anglosfera. Il PhD è un programma universitario elitario, lungo dai tre ai sei anni a seconda del paese e della disciplina, dove viene addestrato a fare “lo scienziato”.

Durante il PhD nei primi anni segue corsi di altissimo livello tecnico, tenuti dai migliori professori del suo dipartimento, ai quali si affianca una prima fase di avviamento alla ricerca, sotto forma di “research assistant”, o RA. Questa fase, che sancisce il passaggio dalla “conoscenza consolidata” dei libri di testo alla “frontiera della ricerca scientifica”, avviene esplicitamente sotto la guida di un professore-mentore, che con buona probabilità seguirà lo studente dottorando durante la rimanente parte del corso di dottorato, e quasi sempre nel corso di tutta la carriera. L’agoghé della soia. Non tutti i dottorandi verranno ovviamente accoppiati a un mentore “vincente”, ma solo quelli più determinati, ambiziosi, e che mostrano vivacità nei corsi.

Nel corso di questa fase di RA, lo studente viene svezzato a quelle che sono le vere pratiche della ricerca scientifica. È una fase davvero cruciale, è il momento in cui lo studente passa dagli ideali romantico-prometeico-faustiani della scoperta del Vero, alle nottate passate a smanettare con dati che non hanno senso, fra errori nel codice e un generale sbigottimento di fronte al senso smarrito. Perché sto facendo tutto questo, perché devo trovare proprio QUEL risultato? Non è contrario a tutti gli schemini razionalisti che condividevo su facebook due anni fa, quando prendevo per il culo il terrapiattista di turno? Come sarebbe a dire che se la stima non supporta l’ipotesi allora devo cambiare la specificazione del modello? È a questo punto che in genere pone al mentore delle timide domande dal vago sapore “epistemologico”, che in genere vengono evase con supercazzole positiviste sulla scienza che prosegue per errori, o con un discorso che suona più o meno così: “Ti succederà di non capire. Ci sono due modi di non capire: non capire aspettando di capire, o non capire rompendo i coglioni. Scegli tu. A ottobre ti finisce la borsa.”

I più puri a questo punto cadono in depressione, dalla quale usciranno trovandosi un lavoro onesto, con o senza pezzo di carta. Gli arrivisti, gli psicopatici e gli ingenui Fachidioten andranno invece avanti come treni, inarrestabili nella loro sfolgorante carriera votata al prestigio.

Dopo la prima fase di RA, durante la quale contribuisce alle pubblicazioni del mentore – con o senza menzione tra gli autori – passa alla fase successiva, più matura, fatta di costruzione di una propria pipeline di ricerca, collaborazione da coautore con il mentore e i suoi altri coautori, partecipazione a conferenze, tessitura di una rete relazionale con altre università. Al coronamento di questa fase c’è il conseguimento del titolo di PhD, che però a questo punto non è niente altro che una formalità, dal momento che i conseguimenti del dottorando parlano da soli. La “dissertazione”, o “difesa” infatti non sarà altro che un seminario dove lo studente presenta il suo lavoro di maggior rilievo, già pubblicabile.

Ma ora lo studente è già lanciato: a seconda della disciplina e della fortuna, avrà già firmato un contratto da “assistant professor” in “tenure track”, o da “post-doc”. La sua carriera futura sarà quindi determinata esclusivamente dalla sua abilità nello scegliere i cavalli giusti, ossia i progetti di ricerca sui quali puntare. È infatti entrato nel mondo infernale del “publish or perish”, nel quale la sua probabilità di essere confermato “a vita“ dipende esclusivamente dal numero di articoli che riesce a pubblicare su riviste peer-reviewed “buone”. In molte scienze dure il limbo dei post-doc, durante i quali lo scienziato si sposta di contratto in contratto come un monaco errante, nell’impossibilità di vivere relazioni stabili, può durare anche dieci anni. La “tenure track”, ossia il periodo dopo il quale possono decidere se confermarti o meno, dura più o meno sei anni. Un ricercatore che riesce a diventare strutturato stabile in una università prima dei 35-38 anni anni può ritenersi fortunato. E questa non è affatto una peculiarità del sistema italiano.

Dopo l’agognato “posto fisso” da professore, può forse il ricercatore rilassarsi e mettersi a lavorare solo su progetti sensati, di qualità, che richiedono tempo e pazienza e che potrebbero anche non portare da nessuna parte? Può lavorare su progetti che possono anche sfidare il famoso consensus? Ha tempo di studiare per poter recuperare un po’ di visione di insieme? Sebbene l’istituto della “tenure”, cioè il posto fisso da professore, sia stato pensato proprio per questo, la risposta è no. Qualcuno lo fa anche, conscio di finire emarginato e ignorato dai suoi pari, nel dipartimento e fuori. Based, ma finisce nell’ultima stanza in fondo vicino al cesso, non vede una lira di fondi di ricerca, non lo invitano alle conferenze, e gli appioppano i dottorandi più sfigati per fare ricerca. Se simpatico viene trattato da zio eccentrico e preso bonariamente in giro, se antipatico viene prima odiato e poi ignorato.

Ma in generale, se sei sopravvissuto a dieci anni di publish or perish – e non tutti ci riescono – è perché ti piace farlo. Quindi continuerai a farlo, anche perché i premi sono ambiti. Aumenti di stipendio, named chairs, posto da editor delle riviste, fondi di ricerca, consulenze, inviti alle conferenze, grants milionari in qualità di principal investigator, interviste ai giornali e in televisione. Letteralmente soldi e prestigio. La corsa alle pubblicazioni non finisce, anzi a questo punto diventa sempre più spietata. E lo scienziato, ora di fatto un manager della ricerca, con decine di dottorandi e post-doc a disposizione come forza lavoro, perderà sempre più contatto con la materia della ricerca per interessarsi di politica accademica, soldi e pubbliche relazioni. Sarà il dottorando ora a “sbagliare” il codice al posto suo, fino a trovare il risultato sperato. Non dovrà neanche chiederglielo esplicitamente, nella maggior parte dei casi. Tanto comunque nessuno si accorge quasi mai di niente, perché a nessuno frega niente. Ma come, e il peer review?

Il peer-review

Migliaia di pagine sono state scritte su questo istituto, sui pregi, sui difetti, su come migliorarlo. È stato ridicolizzato e trollato a sangue, ma la conclusione recitata dagli alfieri della scienza è sempre la medesima: è il sistema migliore che abbiamo e ce lo dobbiamo tenere. Il che è in parte vero, ma la sua supposta aura di infallibilità è la principale responsabile dello stato penoso nel quale versa l’accademia. Vediamo come funziona.

Il nostro ricercatore Anon ha il suo bel Pdf scritto in Latex intitolato “The Antani Problem: is it Quintana or Setta?” (citazione boomer), e lo sottomette al Journal of Liquid Bullshit tramite la sua piattaforma web. Il Chief editor del JoLB prende il pdf, dà una occhiata veloce, e decide a quale associate editor smistarlo, in base all’argomento. L’editor prescelto dà un’altra occhiata veloce e decide se 1) mandare una breve lettera dove dice ad Anon che il suo lavoro è sicuramente bello e interessante ma unfortunately it is not a good fit for the Journal of Liquid Bullshit, I reccomend similar outlets such as Journal of Bovine Diarrhea, or Liquid Bovine Stool Review oppure 2) inviarlo ai referee. Ma fermiamoci un attimo.

Cos’è il Journal of Liquid Bullshit?

Il Journal of Liquid Bullshit è un “field journal” nell’ambito della disciplina generale “Bullshit” (Medicina, Fisica, Statistica, Scienze Politiche, Economia, Psicologia, etc), che si occupa del campo più specialistico Liquid Bullshit (Virologia, Astrofisica, Machine Learning, Regime Change, Labour Economics, etc). Non è una rivista gloriosa come Science o Nature, e non è una rivista prestigiosa nella disciplina (Lancet, JASA, AER, etc). Ma è una buona rivista, sulla quale pubblicano comunque regolarmente nomi importanti nel campo della merda liquida. Al contrario di quelle più prestigiose, legate in genere ad enti specifici o a editrici universitarie, la maggior parte di queste riviste è pubblicata (online, si intende) da editrici for profit, che campano vendendo a caro prezzo pacchetti di abbonamenti alle università.

Chi è il Chief editor? L’editor è una personalità di spicco nel campo del Liquid Bullshit. Sicuramente un Full Professor, minimo 55 anni, decine di pubblicazioni di rilievo, citatissimo, è stato keynote speaker in svariate conferenze annuali dell’American Association of Liquid Bovine Stools. Durante le conferenze ha costantemente un capannello di gente intorno.

Chi sono gli Associate editors?

Sono professori associati o full, con numerose pubblicazioni, anche se relativamente giovani. Ben connessi, ben lanciati. Il compito dell’associate editor è quello di gestire il manoscritto in tutte le sue fasi, dalla scelta dei referee alle decisioni circa le revisioni. L’AE è chi ha tutto il potere sul paper, non solo ovviamente per la decisione finale, ma anche per la scelta dei referee.

Chi sono i referee

I referee sono degli accademici, contattati formalmente dall’AE per valutare il paper e scrivere una breve relazione. Separatamente, inviano anche una raccomandazione privata all’AE sul destino del paper: accettazione, revisione, o rigetto. Il lavoro dei referee non è pagato, è tempo sottratto alla ricerca o molto spesso al tempo libero. Il referee riceve solo il paper, non ha alcun modo di valutare i dati o i codici, a meno che (cosa rarissima) gli autori non li mettano a disposizione sulle loro pagine web personali prima della pubblicazione. Difficile in ogni caso che il referee si metta a perdere tempo a smanettare. La valutazione richiesta al referee infatti è solo di natura metodologico-qualitativa, e non di merito. La valutazione “di merito” infatti spetterebbe alla “comunità scientifica”, che replicando il lavoro degli autori, sotto le stesse o altre condizioni sperimentali, ne giudicheranno la validità. Anche un bambino capirebbe che c’è un conflitto di interessi grande come una casa. Il referee infatti può attivamente sabotare il paper, e l’autore può tranquillamente sabotare i referee quando sarà il loro turno a giudicare. Infatti, quando i paper si scrivevano a macchina e viaggiavano per posta, il sistema usato era quello della review in “doppio cieco”. Dal manoscritto si toglieva il frontespizio: il referee non sapeva chi stava giudicando, e l’autore non sapeva chi fosse il referee. Da quando esiste internet, tuttavia, gli autori hanno trovato sempre più conveniente pubblicizzare i loro lavori in formato “workings paper”. Ci sono molte ragioni per farlo e non mi dilungo, ma la cosa è ormai talmente diffusa che ai referee basta una brevissima ricerca su google per trovare il working paper, e con esso i nomi degli autori. Ormai sempre più riviste hanno rinunciato a far finta di credere alla revisione in doppio cieco, e inviano ai referees il pdf completo di frontespizio. I referees non sono più quindi degli anonimi arbitri, soprattutto perché hanno dei forti conflitti di interesse. Ad esempio al referee può capitare tra le mani il paper di un suo amico o collega, o di uno sconosciuto che dà ragione – o torto – alla sua ricerca. Un referee può anche “rivelarsi” anni dopo all’autore, ad esempio davanti a un bicchiere, durante gli eventi alcolici nel corso di una conferenza, ovviamente in caso di report favorevole. Sai, sono stato referee del tuo paper al journal X. Può far comodo, se c’è una certa confidenza. Non dimentichiamo infatti che i referee è gente che a sua volta sta cercando di pubblicare i loro articoli su altri giornali, o addirittura gli stessi. E non tutti i referee sono uguali. Un “buon” referee è merce rara per un editor. Il buon referee è quello che risponde in tempo, e scrive report prevedibili. Ho conosciuto professori affermati che si vantavano di ricevere decine di paper al mese da referare “perché sanno che glieli rigetto tutti subito”.

Come funziona quindi questo processo di peer review?

Non dobbiamo immaginarci gli editor come gente avulsa dal mondo, ma con le mani estremamente in pasta. Un editor infatti ha un potere enorme, e non si diventa editor se non si dimostra di bramare a questo potere, oltre ad esserselo meritato, secondo le logiche perverse del cartello. Il potere enorme dell’editor consiste nell’influenzare la sorte di un paper in tutte le fasi della revisione. Può scegliere referee favorevoli o sfavorevoli a un paper: le faide scientifiche e i loro partecipanti sono note, e sono soprattutto note agli editors. Può anche schierarsi con il referee di minoranza e chiedere una revisione (o il rigetto).

Ogni ricercatore di alto livello sa quali sono gli editors amici, e sa quali possono essere i potenziali referee nemici più pericolosi. Gli articoli vengono spesso calibrati, cercando di leccare il culo all’editor o ai referee potenziali, strizzando l’occhio alle loro agende di ricerca. È in questo contesto infatti che si sviluppa il mercato delle vacche delle citazioni: se ho paura del referee Tizio, ne citerò più lavori possibili. Oppure altra strategia (valida per giornali minori e lavori di nicchia) è ignorarlo completamente, altrimenti l’editor neutrale potrebbe sceglierlo come referee semplicemente scorrendo la bibliografia. Molti referee inoltre, in fase di revisione, fanno di tutto per pompare le loro citazioni sostanzialmente spingendo gli autori a citare i loro lavori, anche se poco pertinenti. Ma questo accade su riviste minori. [2]

La cosa più rilevante da comprendere della natura del peer review, è come sia un processo a cui partecipano soggetti consapevolmente e strutturalmente in conflitto di interessi. La cosa divertente è che questo stesso sistema è anche usato per allocare i fondi di ricerca pubblici, come vedremo.

Il fatto che ogni tanto qualche articolo “scomodo” riesca a bucare il muro del peer review non deve ovviamente ingannare: il processo, seppur ben guidato, rimane ancora in parte casuale. Un referee può raccomandare l’accettazione inaspettatamente, e l’editor può farci ben poco. In ogni caso poco male: un articolo scomodo ogni tanto non contribuirà mai alla crazione del consensus, quello che fa comodo agli apparati finanziatori ultimi, e anzi dà all’osservatore esterno l’illusione che ci sia un dibattito franco.

Ma quindi si può davvero truccare i risultati di una ricerca e farla franca?

Generalmente sì, anche perché si bara a vari livelli, generalmente lasciandosi dietro vari schermi di plausible deniability, ossia espedienti che ti permettono di dire che ti sei sbagliato, che non lo sapevi, che non l’hai fatto apposta, che è stato il dottorando, che il cane ti ha mangiato i dati grezzi. Certo, nel raro caso che si venga scoperti non ci fai una bella figura, e il paper generalmente finirà “retracted”. Un discreto marchio di infamia sulla carriera di un ricercatore, che se però riesce a nascondere le prove della sua malafede conserverà comunque la cattedra, e tra qualche anno tutti si saranno dimenticati. Dopotutto son cose che fanno tutti: peccato, pietre, eccetera.

Ogni tanto, sempre più di frequente, capita qualche retraction grossa, dove si scopre che i dati di qualche lavoro ben pubblicato erano completamente inventati, e che i risultati erano troppo belli per essere veri. Questo accade quando qualche giovane emergente psicopatico esagera, e attira troppo l’attenzione su di sé. Questi casi estremi di frode totale sono sicuramente più numerosi di quelli scoperti, ma come detto non serve inventarsi i dati per trovare un risultato pubblicabile, basta pagare una scimmia che provi tutti i modelli possibili su tutti i sottoinsiemi possibili. La giustificazione a posteriori del perché hai escluso il sottoinsieme B si trova sempre. Volendo puoi anche ometterla, tanto se non hai pestato i piedi a nessuno è escluso che qualcuno si metta a fare le pulci al tuo lavoro. Addirittura nelle scienze sperimentali può capitare che nessuno sia riuscito a replicare gli esperimenti di paper importantissimi, e ci hanno messo quindici anni a scoprire che forse si erano inventati tutto. Andatevi a cercare su google “alzheimer scandal” LOL! Non c’è nessun incentivo reale nell’accademia a scoprire articoli farlocchi, se non letteralmente vantarsene su twitter.

I fondi per la ricerca


Per fare ricerca servono soldi. Non ci sono solo le attrezzature dei laboratori, che non sono comunque necessari in numerose discipline. C’è anche e soprattutto la forza lavoro. I laboratori e in generale la ricerca è infatti mandata avanti da gente sottopagata, cioè dottorandi e post-doc (in italia noti come “assegnisti”). Ma non solo, ci sono anche spese per software, acquisto dataset, viaggi per conferenze, seminari e workshop da organizzare, con gente da invitare e a cui pagare viaggio, albergo e cena in ristorante decente. Considerate l’importante lato PR di questo aspetto: invitare un professore importante, magari un editor, per una vacanzetta di due giorni e farselo “amico” può sempre tornare utile.

Oltre a tutto questo, c’è da considerare che in genere le università trattengono una quota dei grants vinti da ogni professore, e con questa quota ci fanno varie cose. Se il professore sfigato che non vince i grants deve cambiare la sedia, o il computer, o vuole andare a presentare a una conferenza sfigata dove non è invitato, dovrà andare col cappello in mano dal direttore di dipartimento a chiedere i soldi, che in buona parte proverranno dai grants vinti dagli altri. Non so come funzioni in Italia, ma nel resto del mondo è certamente così. Questo significa ovviamente che un professore che vince grants avrà più potere e prestigio in seno al dipartimento di uno che non li vince.

In breve, vincere fondi è un obiettivo fondamentale per ogni ricercatore ambizioso. Non vincere grants, anche per un professore con la tenure, implica diventare una sorta di reietto. A non vincere grants è quello strano, coi capelli arruffati, che ha l’ufficio in fondo al corridoio vicino al cesso. Ma come si vincono i grants?

I grants vengono dati da appositi enti – pubblici o privati – per l’erogazione di fondi alla ricerca, che pubblicano dei bandi, periodici o speciali. Il professore, o gruppo di ricerca, scrive un progetto di ricerca, nel quale dice cosa vuole fare, perché è importante, come intende farlo, con quali risorse e quanti soldi gli servono. La commissione a questo punto nomina dei referees “anonimi” esperti nel campo, che fanno la peer review sul progetto. Non ci vuole poco a capire che se sei un esperto nel campo, sai benissimo chi andrai a valutare. Se avete letto fino a qua, saprete anche benissimo che i referees hanno un gigantesco conflitto di interessi. Basta infatti una supercazzola per affossare il progetto della banda rivale, o favorire l’amico con il quale condividi la stessa agenda di ricerca, mentre nessuno avrà il coraggio di affossare il progetto del raìs del campo. La commissione infine valuterà il profilo accademico del richiedente, ovviamente contando il numero e il prestigio delle pubblicazioni, nonché il totemico H-index.

Abbiamo quindi un sistema dove pubblica chi ottiene i grants, e ottiene i grants chi pubblica. Il tutto governato da un inestricabile intreccio di conflitti di interesse, dove a risultare vincenti sono le connessioni informali – e in ultima istanza interessate – del singolo ricercatore. Connessioni informali che, ricordiamolo partono dal dottorato. Quello che è presentato come un sistema asettico, oggettivo e informale di valutazione meritocratica, assomiglia nella migliore delle ipotesi al sistema per assegnare l’appalto del rifacimento del parcheggio dei bus di un paesino dell’agro Pontino negli anni Ottanta.

L’agenda di ricerca

L’abbiamo nominata varie volte, ma cos’è davvero una agenda di ricerca? Sinteticamente possiamo dire che l’agenda di ricerca è un filone di ricerca in un certo sotto-campo di una sotto-disciplina, legato ad una ipotesi di partenza, e/o a una particolare metodologia. Questa ipotesi di partenza tenderà sempre a trovare conferma da chi porta avanti l’agenda. La metodologia invece verrà sempre presentata come risolutiva, e di gran lunga superiore alle alternative. Agenda di ricerca, per continuare con l’esempio di prima, potrebbe essere il rapporto fra colore e peso specifico degli escrementi bovini e produzione di latte. Oppure metodi non-parametrici per stimare la produzione di escrementi data la composizione della dieta.

Attorno all’agenda di ricerca vengono costruite o bloccate le carriere: un ricercatore con agenda “hot”, magari in un campo relativamente nuovo, avrà molte più probabilità di pubblicare bene, e quindi di prendere grants, e quindi di pubblicare bene. In genere si viene lanciati sull’agenda hot durante il dottorato, se l’advisor ti consiglia bene. Ad esempio può darsi che l’advisor abbia in mente un filone, ma non gli va di mettersi a imparare una nuova metodologia a 50 anni, quindi manda avanti il giovane coautore. Spesso quindi il prof cinquantenne, ormai “full professor”, si trova a diventare fra i leader di un filone di ricerca “d’avanguardia” senza averne mai davvero padroneggiato le metodologie e le tecnicalità, limitandosi dunque al lato manageriale e di marketing della questione.

Come già spiegato, intorno alle agende si formano delle vere e proprie bande, che agiscono per monopolizzare il dibattito sull’argomento, dando vita a un vero e proprio pseudo-dibattito controllato. Gli articoli “seminali” dei boss non si potranno mai demolire totalmente, semmai arricchire, espandere. Si potranno esplorare le questioni da un altro punto di vista, sotto altre dimensioni, utilizzare nuove tecniche di analisi, altri dati, che porteranno a conclusioni sempre via via diverse. La cosa chiave è che nessuno dirà mai “scusate raga ma qui stiamo perdendo tempo”. L’unico tempo perso nell’accademia è quello che non porta a pubblicazioni e quindi a grants.

Ma quindi chi detta l’agenda? La dettano – direttamente – i big players della ricerca, ossia i professori al top della carriera a livello internazionale, editors delle riviste più prestigiose. Indirettamente la dettano quindi i finanziatori ultimi della ricerca, diretti e indiretti: multinazionali e governi, sia direttamente che indirettamente, tramite l’azione delle lobby e dei vari potentati internazionali.

Il grosso equivoco alla base della scienza, e quindi della giustificazione del suo finanziamento di fronte all’opinione pubblica, è che questo incessante e caotico “ricercare per pubblicare” riesca comunque ad aggiungere tasselli alla Conoscenza. Ciò è largamente falso.

Infatti, le agende di ricerca non si parlano mai tra loro, e soprattutto non sembrano mai giungere ad una conclusione. Dopo anni di pseudodibattito l’agenda sarà stata talmente “arricchita” da centinaia di articoli pubblicati, che provare a dargli un senso sarebbe un lavoro duro e ingrato. Ingrato perché di fare questo lavoro non interessa a nessuno. Fondi sono stati spesi, e cattedre sono state prese. Il filone infatti prima o poi si secca: l’argomento smette di essere di moda, quindi di essere appetibile per le riviste top, passa via via su riviste minori, i dottorandi nuovi smetteranno di interessarsene, e se i leader del filone tengono alla carriera, passeranno ad altro. E ricomincia la giostra.

Le domande fondamentali poste all’inizio dell’agenda non avranno trovato risposte soddisfacenti, e le problematiche concettuali e metodologiche sollevate nel corso dello pseudo-dibattito accademico non saranno certamente state risolte. Un osservatore esterno che dovesse studiare tutta la letteratura di un filone di ricerca non potrà fare a meno di notare che i risultati “da portare a casa” sono ben pochi. Fra risultati inconcludenti, metodologie errate o applicate erroneamente, il contributo netto portato alla conoscenza è quasi sempre zero, e la risposta qualitativa, o “di buon senso”, rimane sempre la migliore.

Conclusioni

Abbiamo fin qui descritto lo scientificio. Il suo funzionamento, gli attori in esso coinvolti e il loro reclutamento. Abbiamo descritto come il conflitto di interessi – e la corruzione morale e sostanziale – governino ogni aspetto della professione accademica, che non è quindi in grado, nel suo complesso, di offrire alcun punto di vista oggettivo e imparziale, su nulla.

Il prodotto della scienza è una gigantesca montagna di merda: risposte sbagliate, incomplete, platealmente false e/o irrilevanti. Risposte a domande che nella maggior parte dei casi nessuno sano di mente avrebbe voluto porre. Una montagna di merda dove nessuno, fra quelli che vi sguazzano, sa un cazzo. Nessuno capisce un cazzo, e a domande malposte vengono date dietro pagamento risposte pilotate. Una montagna di merda dentro la quale mani febbrili cercano – e trovano – la giustificazione mistico-religiosa del potere, dell’arbitrio e della tirannide contemporanea.

Certo, ci sono le eccezioni. Certo, ci sta il prof. che è passato attraverso le maglie del sistema, e ora grazie alla posizione ha una piattaforma per dire qualcosa di interessante. Ma è una voce isolata, ridicolizzata, utilizzata per aizzare i consueti due minuti d’odio televisivi o social. Non c’è nessun bambino da salvare nell’acqua sporca. Il bambino è morto. Affogato nei liquami.

Il “dibattito accademico” è ormai un processo totalmente autoreferenziale, che non porta ad alcun risultato quantitativo (o qualitativo) tangibile. L’intera ricerca accademica non è altro che un gigantesco schema Ponzi per aumentare le citazioni, che servono a ottenere grants e pompare l’ego e il conto in banca – ma soprattutto l’ego – di carrieristi di professione.

La scienza come istituzione è un elefantiaco apparato ipertrofico, corrotto fino al midollo, la cui unica funzione – oltre a riprodurre incestuosamente sé stesso – è fornire la legittimazione del potere. Sicuramente un tempo era in grado di fornire anche la base della conoscenza tecnica necessaria alla riproduzione e al mantenimento del potere stesso. Oggi non più, la produzione inarrestabile della montagna di merda lo rende impossibile. Al più riesce a selezionare, nominalmente ed assegnando semplicemente un gettone di presenza attraverso le scuole più d’élite, i rampolli della nuova classe dirigente.

Quando qualcuno vi magnifica l’ultimo ritrovato della scienza, l’unica risposta possibile che si può dare è “non compro niente, grazie”. Se qualcuno vi dice che sta agendo “secondo scienza”, scappate.

[1] A consigliare Galilei di parlare di “ipotesi” fu Bellarmino. Per tutta risposta Galilei pubblicò il ridicolo “dialogo”, dove l’evidenza portata a sostegno delle sue affermazioni sull’eliocentrismo non era altro che una congettura, completamente sbagliata e senza alcun fondamento empirico. La posizione del Santo Uffizio fu letteralmente “dì quello che ti pare basta che non la spacci per Verità”. Galilei si è vendicato: ora dicono quello che gli pare e la spacciano per verità. Fonti? Cercatevele. 

[2] Paradossalmente, nella fascia medio-bassa dei giornali, dove la competizione dei tagliagole è minima, si può trovare ancora qualche raro esempio di peer review fatto bene. Ad esempio una volta mi fu richiesto di referare un paper per un giornale minore, con il quale non avevo mai avuto nulla a che fare e del quale non conoscevo l’editor neanche indirettamente. Paper inviato senza frontespizio quindi anonimo, e stranamente non trovai il working paper online. Era oggettivamente una porcheria, e raccomandai il rigetto.


sabato 18 febbraio 2023

L'impero colpisce ancora: basta con queste ridicole politiche ambientali!

Da "The Seneca Effect" 12 febbraio 2023


Ho definito questa immagine come " Il grafico più sorprendente del 21° secolo " e ho sostenuto che la rapida inversione della tendenza al declino della produzione di greggio è la causa dell'attuale politica estera aggressiva del governo degli Stati Uniti. Ma i capricci della produzione di petrolio negli Stati Uniti non hanno smesso di stupirci. Ora, stiamo assistendo a un tentativo disperato di mantenere in crescita la produzione di petrolio, anche a costo di abbandonare tutto ciò che è stato fatto finora in termini di politiche "verdi" per mitigare il cambiamento climatico e la distruzione dell'ecosistema. È un cambiamento storico importante. 


A volte, le cose cambiano così velocemente nel nostro mondo che rimaniamo sconcertati nel vedere la rapida scomparsa del mondo che pensavamo fosse normale. La pandemia di Covid è stata un esempio calzante. Ha cambiato le nostre abitudini, il modo in cui vediamo noi stessi e gli altri, e ha influito sui nostri diritti fondamentali. In meno di un paio d'anni, ci ha spinto verso una "nuova normalità" che è diventata il modo in cui le cose sono e devono essere. 

L'ondata di rapidi cambiamenti non è finita. Ora, il cambiamento sta investendo le politiche energetiche e ambientali, e non in una buona direzione. Un recente articolo su " The Epoch Times " riporta di un documento approvato dal Comitato per le risorse naturali della Camera degli Stati Uniti dal titolo " Il comitato guidato dal Partito Repubblicano: cambia marcia, vai a tutto gas per la produzione domestica di energia ". È un vero tsunami pronto a spingerci verso un altro tipo di "nuova normalità". Ecco alcuni estratti.

"I repubblicani hanno chiarito che molte iniziative approvate sotto l'amministrazione Biden che promuovono veicoli elettrici, cattura del carbonio, energia verde e protezione ambientale sono sul proverbiale ceppo.

"Tra le proposte che domineranno l'ordine del giorno del comitato e dei suoi gruppi sussidiari nei prossimi mesi ci sono i disegni di legge che vietano le restrizioni al fracking idraulico senza l'approvazione del Congresso, l'espansione delle esportazioni di gas naturale, l'abrogazione del Green House Reduction Fund dell'IRA e la modifica del Clean Air, Toxic Atti sul controllo delle sostanze, sullo smaltimento dei rifiuti solidi e sull'imposta nazionale sul gas.

"All'interno della tranche della legislazione proposta sul "scatenamento dell'agenda energetica americana" del comitato ci sono progetti di legge che chiedono di consentire riforme, promuovere lo sviluppo di "minerali critici" e vietare l'importazione di uranio russo. 

"Le attuali politiche energetiche non solo degradano l'economia, ma mettono in pericolo la sicurezza nazionale... Stiamo esportando ricchezza da qui negli Stati Uniti, molte volte ai nostri avversari, a causa di una mentalità non-nel-mio-cortile,

"L'emendamento proposto da Grijalva per incorporare una dichiarazione secondo cui gli impatti del cambiamento climatico devono essere soppesati nella valutazione delle proposte è stato sconfitto con un conteggio di 21-15 partiti".

E altre cose simili.

Proviamo a capire cosa significa tutto questo. Possiamo iniziare con la frase chiave: " proibire le restrizioni al fracking idraulico ". Significa che i repubblicani vogliono aumentare a tutti i costi la produzione di gas naturale e petrolio greggio, e al diavolo il "cambiamento climatico" e la "protezione ambientale". Queste stupide idee sono venute da quegli scienziati che pensano di meritare uno stipendio solo perché passano il loro tempo a spaventare il pubblico con catastrofi inventate che non arrivano mai. Chi si credono di essere? 

I repubblicani sembrano cavalcare l'onda dell'opinione pubblica che vede le politiche ambientali in cattiva luce. In effetti, la maggior parte delle persone non è mai stata entusiasta di fare sacrifici per un'entità nebulosa chiamata "l'ambiente". Ma, oggi, la fiducia del pubblico nella scienza ha subito  un duro colpo  dalla crisi del Covid, e diventa sempre più difficile convincere le persone ad agire in nome di una "scienza" che vedono con crescente sospetto. Indipendentemente dalle opinioni individuali, quando le cose si fanno difficili, la maggior parte delle persone tende a concordare sul fatto che non c'è spazio per sottigliezze e lussi, come solitamente vengono percepite le politiche ambientali. 

A parte i regolamenti sul dumping, né i repubblicani né il pubblico in generale sembrano essere in grado di vedere l' evidente contraddizione in ciò che stanno progettando di fare. L'aumento della produzione di petrolio e gas negli USA significa che verranno utilizzati ed esportati più petrolio e gas. Ma una volta che il petrolio viene prodotto e bruciato, non c'è più. Allora il paese si impoverirà, avendo perso parte delle sue risorse naturali. (A meno che, ovviamente, uno non pensi che il petrolio e il gas siano una risorsa infinita... ed è proprio quello che pensano le élite statunitensi .). Questo è un classico caso in cui qualcuno affretta la propria fine, ma è normale. Succede sempre così. 

Inoltre, c'è un punto ancora più preoccupante in queste idee. La produzione di fracking può essere effettivamente aumentata? La sentenza sulla proibizione delle restrizioni al fracking idraulico in realtà sa di disperazione . Negli ultimi 10 anni è stato ottenuto un aumento incredibilmente rapido della produzione di petrolio senza la necessità di una legislazione così radicale. Allora perché è necessaria adesso? Potrebbe essere un modo per i senatori di mostrare la loro determinazione, ma è più probabile che l'industria del fracking sia in difficoltà, incapace di riprendersi dopo il calo causato dalla pandemia di Covid. 

Vediamo alcuni dati recenti da " Peak Oil Barrel ". 


Vediamo che la produzione petrolifera statunitense è crollata nel 2020 a causa delle conseguenze dell'epidemia di Covid. Poi ha ricominciato a crescere ma deve ancora tornare al livello record di novembre 2019. Durante gli anni di rapida crescita, fino al 2019, era cresciuta di oltre 1 milione di barili all'anno, un aumento di quasi il 10%. Era un tasso di crescita mai visto durante l'intera storia della produzione petrolifera statunitense. Ma, durante l'attuale ripresa, è sceso a circa la metà di quel valore. Le previsioni vedono un'ulteriore riduzione a una crescita quasi nulla, in modo che il record del 2019 non potrà essere superato prima del dicembre 2024, se mai lo sarà. Si noti anche come la produzione sia diminuita per circa 6 mesi prima dello shock Covid. C'era già del marcio in Texas, allora. 

Cosa sta succedendo? Una cosa è chiara: l'industria petrolifera americana non può più sostenere l'incredibile tasso di crescita che era stata la regola fino al 2019. Potremmo essere vicini al secondo (e ultimo) picco della produzione di petrolio negli Stati Uniti (come notato anche da altri )

Quindi, come nell'antica maledizione cinese, viviamo in tempi interessanti. Un impero che non si espande è un impero morto e l'impero americano ha bisogno di energia per continuare la sua espansione. Una guerra, in fondo, è solo una continuazione dell'economia con altri mezzi: il mercato è il campo di battaglia, e l'"obsolescenza programmata" è assicurata dai prodotti della concorrenza. Durante l'ultimo decennio, l'impero statunitense ha accumulato un notevole potenziale economico attraverso il "miracolo del fracking". Questo potenziale è stato trasformato in gran parte in un potenziale militare. È giunto il momento di dissipare questo potenziale; è la ragione principale di ciò che vediamo nel mondo al giorno d'oggi. È un concetto approfondito da Ingo Piepers .

Le élite americane sembrano perfettamente in grado di capire cosa sta succedendo e agiscono di conseguenza. Da qui, lo sforzo di sostenere a tutti i costi l'industria petrolifera. Quindi, l'Impero riuscirà a sopravvivere ancora per qualche anno? La guerra attuale non si combatte sul campo di battaglia ma sui giacimenti petroliferi. La fazione che esaurisce il carburante per prima sarà quella perdente. 

Alla lunga, comunque, perdono tutti. A un certo punto, la produzione di fracking non si limiterà a diminuire: crollerà in uno dei più brutali Dirupi di Seneca mai visti prima. Ma è normale: l'umanità ha prosperato prima dell'era del petrolio, e potrebbe benissimo fare lo stesso dopo. Sarà solo un mondo molto diverso per coloro che sopravviveranno per vederlo. 


Di seguito riporto un post che ho pubblicato nel 2015, in cui confrontavo la crescita della produzione di olio di scisto con quella della pesca del merluzzo nell'Atlantico. In entrambi i casi, i produttori sono stati accecati da una falsa sensazione di abbondanza generata dalla crescita della produzione. Non si sono resi conto che più velocemente estrai, più velocemente esaurisci. 

Il "miracolo" dell'olio di scisto: come la crescita può falsamente segnalare l'abbondanza. 

Originariamente pubblicato su "Cassandra's Legacy,  24 febbraio 2015




Produzione di petrolio (tutti i liquidi in barili al giorno) negli Stati Uniti e in Canada. (Dal  blog di Ron Patterson ). Questa rapida crescita indica che le risorse sono abbondanti e che tutte le preoccupazioni per il picco del petrolio sono fuori luogo? Forse no...


A volte, utilizziamo una metrica semplice per valutare sistemi complessi. Ad esempio, una guerra è una faccenda enormemente complicata dove milioni di persone combattono e lottano. Tuttavia, alla fine, il risultato finale è una domanda sì/no: o vinci o perdi. Non per niente, il generale McArthur disse una volta che " non c'è niente che possa sostituire la vittoria ".

Pensate all'economia: è un sistema immenso e complesso dove milioni di persone lavorano, producono, comprano, vendono, guadagnano o perdono denaro. Alla fine il risultato finale è una semplice domanda sì/no: o cresci o no. E quello che ha detto McArthur sulla guerra può essere applicato all'economia: "non c'è niente che possa sostituire la crescita ".

Ma i sistemi complessi hanno modi di comportarsi sorprendenti che non possono essere ridotti a un semplice giudizio sì/no. Sia la vittoria che la crescita possono creare più problemi di quanti ne risolvano. La vittoria può falsamente segnalare una potenza militare che non esiste (si pensi all'esito di alcune guerre recenti...), mentre la crescita economica può segnalare un'abbondanza che semplicemente non c'è.

Guardiamo la figura all'inizio di questo post (dal  blog di Ron Patterson )Mostra la produzione di petrolio (barili/giorno) negli Stati Uniti e in Canada. I dati sono in migliaia di barili al giorno per "petrolio greggio + condensato" e la rapida crescita degli ultimi anni è dovuta principalmente al tight oil (noto anche come "shale oil", o "petrolio di scisto") e al petrolio delle sabbie bituminose. Se seguite il dibattito in questo campo, sapete che questo trend di crescita è stato salutato come un grande risultato e come la dimostrazione definitiva che tutte le preoccupazioni sull'esaurimento del petrolio e sul picco del petrolio erano mal riposte.

Bene. Ma lasciate che vi mostri un altro grafico, la produzione di merluzzo nordatlantico fino al 1980 (dati  Faostat ).

Non sembra simile ai dati per il petrolio negli Stati Uniti/Canada? Possiamo immaginare cosa si diceva allora; "le nuove tecnologie di pesca dissipano tutte le preoccupazioni sulla  pesca eccessiva " e cose del genere. È quello che è stato detto, infatti (vedi  Hamilton et al. (2003)) .

Ora, guardiamo i dati sugli sbarchi di merluzzo fino al 2012 e vediamo cosa è successo dopo la grande esplosione di crescita.

Questa figura non richiede più di un paio di commenti. La prima è notare come il sovrasfruttamento porti al collasso: le persone non si rendono conto che spingendo per la crescita a tutti i costi, stanno distruggendo la risorsa stessa che crea la crescita. Questo può accadere  con  la pesca proprio come con i giacimenti petroliferi. Ma si noti anche che abbiamo un altro caso di " Dirupo di Seneca", una curva di produzione in cui il declino è molto più rapido della crescita. Come disse l'antico filosofo romano, " La strada verso la rovina è rapida".  E questo è esattamente ciò che potremmo aspettarci che accada con il petrolio di scisto.


sabato 30 luglio 2022

Andazzi socio-culturali... Ma come si fa a non essere critici?


Di Fabio Vomiero

« L'è tutto sbagliato, l'è tutto da rifare »... E' così che ogni tanto si esprimeva l'indimenticato campione toscano Gino Bartali, uomo di gamba e di cuore, quando si trattava di discutere dei problemi che affliggevano il ciclismo e il mondo dell'epoca o di analizzare criticamente le sue tattiche di gara. Espressione semplice, ma estremamente efficace e quanto mai attuale, caro "Ginetaccio". Sì, perchè nonostante molti non se ne siano ancora accorti e continuino a dormire sonni tranquilli comodamente sdraiati nel conforto dei loro personali micromondi, la situazione sistemica non è per niente promettente, anzi.

Ma non staremo qui a fare la solita conta dei diversi problemi conclamati che affliggono il nostro mondo, tutti oramai sanno, o dovrebbero sapere, del cambiamento climatico a forte componente antropica, dell'inquinamento ubiquitario oramai fuori controllo, della sovrappopolazione, della scarsità e della finitudine delle risorse, delle guerre, della disuguaglianza sociale, della povertà e della fame nel mondo, della riduzione della biodiversità, eccetera, eccetera.

Il problema però, è che il semplice "sapere" di quello che sta succedendo nel mondo non è sinonimo di vera comprensione o di consapevolezza, evidentemente, visto che la strategia dell'informazione, della divulgazione e della sensibilizzazione pare non stia affatto funzionando. Sono decenni, infatti, che se ne parla ovunque, nelle conferenze, nelle scuole, nei libri, nelle agende politiche... Risultati? Poco più che zero. Praticamente nessuna dinamica dei parametri ecologici chiave (aumento della popolazione, dei consumi energetici da fonti fossili, delle temperature, dei gas serra, ecc.) ha mai nemmeno minimamente accennato ad una inversione di tendenza. Soltanto parole, o al più qualche timida e disorganizzata azione coerente, utile per tentare di ripulire le coscienze, più che l'ambiente.

D'altra parte, anche la recente e drammatica esperienza sociale della pandemia da virus SARS-CoV-2 dovrebbe avere evidenziato con chiarezza i limiti dello status cognitivo delle nostre società. Si è passati, infatti, dall'iniziale paura e sconcerto (lockdown totale), alla solidarietà e all'ottimismo (vogliamoci tutti bene che andrà tutto bene), alla sentenza di condanna nei confronti dell'altro (sul rispetto delle regole, no vax), e infine alla quasi completa dimenticanza (tutto come prima, chi se ne frega). Un pattern comportamentale tutto sommato semplice, banale e anche molto prevedibile, in fondo, lo stesso che si realizza di fatto ad ogni evento "catastrofico" (alluvioni, terremoti, Marmolada) ed emblema perfetto di quello che si sta osservando anche a livello ecologico sistemico; ricordatevi sempre il trend dei parametri chiave.

Facciamo un altro esempio... La guerra in Ucraina. Bene, la Russia (anzichè Putin) ha invaso l'Ucraina, un Paese sovrano e democratico (Paese comunque pieno di problemi sociali), quindi la Russia è cattiva, imperiale, mangia i bambini e quindi deve essere punita e noi (noi chi... italiani, ucraini, americani, occidentali?) dobbiamo vincere la guerra e sconfiggere la Russia. Se poi qualcuno fa notare che le cose sono evidentemente molto più complesse di così, che ci sono dei motivi causali ovviamente di corresponsabilità che occorrerebbe chiarire e che non è questo il modo (vincere la guerra e distruggere il nemico) per gestire la pace e i rapporti nel complesso mondo di oggi e di domani, allora costui è un "filoputiniano", come il poveretto che paralizzato dalle proprie paure insuperabili non vuole farsi il vaccino a m-RNA anti-Covid e allora è un no-vax (e quindi va punito), o quell'altro che non condividendo la linea politica del governo dei migliori (migliori poi su quale base, con quale criterio?) è allora un disfattista e un irresponsabile.

Ma poi ci sarebbe quantomeno da chiedersi, chi sarebbe veramente "un migliore", magari una persona che con una carica di Presidente del Consiglio cade in fallacie logiche elementari come la "fallacia del falso dilemma", in cui si propongono come soluzioni ad un qualsiasi problema soltanto due alternative estreme, scelte arbitrariamente tra le molte possibili, tipo "o la pace o il condizionatore", oppure, "o ti vaccini o muori"? Ma ci tratta come cretini oppure è lui che proprio non se ne rende conto? Forse è questo il vero dilemma.

E poi si potrebbe anche discutere di questo grande amore popolare per l'autopoiesi delle credenze mitiche e ideologiche, del diffuso pensiero di tipo parmenideo anzichè eracliteo, del perduto rispetto verso la competenza e la preparazione di chi si è fatto il mazzo per studiare e alleggerire per quanto possibile il fardello della propria ignoranza, delle abitudini viziate e scorrette del tutto incoerenti con le problematiche globali, dei paradigmi socio-economici palesemente obsoleti, delle usanze e delle tradizioni che ci si intestardisce a perpetuare a tutti i costi nonostante il mondo cambi velocemente, per esempio come tutte quelle che ancora riguardano l'inaccettabile maltrattamento degli animali, e via dicendo. Di tutto di più, insomma.

Il problema, pertanto, è probabilmente molto più grave e importante di un problema meramente di tipo informativo e conoscitivo o di natura tecnica o tecnologica. Qui si tratta evidentemente di un problema (anche) di "costruzione mentale" (forma mentis). Non siamo per niente abili e allenati nel capire e gestire nè la complessità del mondo, nè la nostra predisposizione sociobiologica di "primate culturale", cioè di animale tra gli animali, per quanto bello, bravo, buono o tutto quello che volete.

Se non ci sforziamo quindi di cambiare l'assetto cognitivo e l'impostazione intellettuale standard, non si va da nessuna parte, almeno dalla prospettiva ecologica, questo oramai dovrebbe essere chiaro, ricordatevi sempre il trend dei parametri chiave che non si è mai spostato di un millimetro da decenni.

Ma se questo è vero, allora il punto fondamentale non è più quello di continuare a spendere sempre più tempo e risorse per informare e sensibilizzare persone cognitivamente impermeabili, o di inseguire l'illusione che saranno dei fantomatici valori morali ideologici a salvarci, ma diventa invece un altro, e cioè la necessità di concentrarsi finalmente sulla nostra vera natura e sul nostro essere. Qual è, infatti, la nostra reale predisposizione comportamentale individuale e sociale? Perchè siamo fatti così? C'è un modo per tentare di ovviare a questo problema bio-strutturale? Si può fare qualcosa in questo senso?

L'eventuale risposta, poi, dovrà essere ricercata come sempre nei fatti e nell'evidenza. Esiste per fortuna uno specifico territorio del sapere che si chiama "scienza", che per sua natura tenta di rinunciare da secoli alla pervasività dei miti e delle ideologie per dedicarsi invece, grazie a una continua revisione di sè stessa e ad un costante raffinamento dei suoi metodi empirici, all'indagine e alla conoscenza del mondo nel modo più affidabile e meno soggettivo possibile.

Del resto sono decenni che per esempio la scienza del clima ci avverte dei rischi concreti del cambiamento climatico antropico, o che le scienze biologiche ed ecologiche evidenziano la fragilità degli ecosistemi e dei cicli biogeochimici e alimentari, oppure ancora che le scienze della nutrizione ci ammoniscono per la nostra condotta alimentare poco salutare ed ecologicamente sconveniente.

C'è assolutamente bisogno pertanto di più scienza e meno ideologia, ma anche della consapevolezza del fatto che soltanto una reale rivoluzione intellettuale e culturale a questo punto potrà essere foriera di grandi cambiamenti nel modo di affrontare e di gestire i problemi sistemici. Una sfida titanica che non potrà non passare almeno per una revisione completa dei programmi scolastici, del modo di insegnare le scienze (perchè non è sufficiente studiarle, ma è necessario appropriarsene), e delle linee programmatiche delle agende politiche, investendo su persone sagge e intelligenti, che siano esse stesse garanti di un dimostrato cambiamento di mentalità e di prospettiva.

Un processo ambizioso che, comunque sia, se anche fosse studiato e ipoteticamente implementato fin da subito, potrebbe portare a qualche risultato significativo non prima di qualche decina d'anni, almeno.

Ecco perchè, personalmente, sono molto poco ottimista in termini di sviluppo sostenibile e di transizione ecologica, anche perchè, se anche "noi occidentali" e qualcun altro riuscissimo in qualche modo incredibilmente a rinsavirci, rimarrebbe comunque insoluto il problema delle popolazioni di vaste aree del mondo che devono paradossalmente confrontarsi con una serie di aspetti che hanno ancora a che fare più con una loro sopravvivenza decente, che con la loro intellettualità.

 



martedì 10 agosto 2021

Consenso: un'arte che stiamo perdendo. Il caso della scienza del clima

 

Dal blog "The Seneca Effect"

Nel 1956, Arthur C. Clarke scrisse "The Forgotten Enemy", una storia di fantascienza che trattava del ritorno dell'era glaciale ( fonte immagine ). Sicuramente non era la migliore storia di Clarke, ma potrebbe essere stata la prima scritta su quell'argomento da un noto autore. Diversi altri autori di fantascienza hanno esaminato lo stesso tema, ma ciò non significa che, a quel tempo, esistesse un consenso scientifico sul raffreddamento globale. Significa solo che un consenso sul riscaldamento globale è stato ottenuto solo più tardi, negli anni '80. Ma quali meccanismi sono stati utilizzati per ottenere questo consenso? E perché, oggigiorno, sembra impossibile raggiungere il consenso su qualsiasi cosa? Questo post è una discussione su questo argomento che usa la scienza del clima come esempio.

 

di Ugo Bardi

 

Forse ricorderete come, nel 2017, durante la presidenza Trump, sia circolata brevemente sui media l'idea di organizzare un dibattito sui cambiamenti climatici sotto forma di un incontro "squadra rossa contro squadra blu" tra gli scienziati del clima ortodossi e i loro avversari. Gli scienziati del clima erano inorriditi all'idea. Erano particolarmente sgomenti per le implicazioni militari dell'idea "rosso contro blu" che suggeriva il modo in cui avrebbe potuto essere organizzato il dibattito. Da parte del governo, invece, si è subito capito che in un dibattito scientifico equo la loro parte non aveva nessuna possibilità di successo. Quindi, il dibattito non ha mai avuto luogo ed è un bene che sia stato così. Forse chi lo proponeva aveva buone intenzioni (o forse no), ma in ogni caso sarebbe degenerato in una rissa e avrebbe creato solo confusione.

Eppure, la storia di quel dibattito che non si è mai tenuto suggerisce un punto che la maggior parte delle persone comprende: la necessità del consenso . Nulla nel nostro mondo può essere fatto senza una qualche forma di consenso e la questione del cambiamento climatico ne è un buon esempio. Gli scienziati del clima tendono ad affermare che esiste un consenso e talvolta lo quantificano come il 97% o addirittura il 100%. I loro avversari affermano il contrario

In un certo senso hanno ragione entrambi. Esiste un consenso sul cambiamento climatico tra gli scienziati, ma questo non è vero per il grande pubblico. I sondaggi dicono che la maggior parte delle persone ha delle nozioni sui cambiamenti climatici e concorda sul fatto che bisogna fare qualcosa al riguardo, ma non è la stessa cosa di un consenso approfondito e informato. Inoltre, questa maggioranza scompare rapidamente non appena è il momento di fare qualcosa che tocca il portafoglio di qualcuno. Il risultato è che, per più di 30 anni, migliaia dei migliori scienziati del mondo hanno continuato ad avvertire l'umanità di una terribile minaccia in arrivo, e non è stato fatto nulla di serio per fermarla. Solo proclami, greenwashing e "soluzioni" che peggiorano il problema (l'" economia basata sull'idrogeno " ne è un buon esempio).

Quindi, la costruzione del consenso è una questione fondamentale. La si può chiamare una scienza o vederla come ciò che altri chiamano "propaganda". Alcuni rifiutano l'idea stessa come una forma di "controllo mentale" o la praticano in vari metodi di negoziazione basata su regole. È un argomento affascinante che va al cuore della nostra esistenza di esseri umani in una società complessa. 

Qui, invece di affrontare la questione da un punto di vista generale, discuterò un esempio specifico: quello del "raffreddamento globale" contro il "riscaldamento globale", e come si è ottenuto un consenso sul fatto che il riscaldamento sia la vera minaccia. È una disputa che spesso si dice sia la prova che non esiste consenso nella scienza del clima. 

Avrete sicuramente sentito la storia di come, solo pochi decenni fa, il "raffreddamento globale" fosse la visione scientifica generalmente accettata del futuro. E come quegli sciocchi scienziati hanno cambiato idea, passando invece al riscaldamento. Al contrario, potreste anche aver sentito che questo è un mito e che non c'è mai stato un consenso sul fatto che la Terra si stesse raffreddando.

Come sempre, la  realtà è più complessa di quanto la politica voglia che sia. Il raffreddamento globale come consenso scientifico è una delle tante leggende generate dalla discussione sui cambiamenti climatici e, come la maggior parte delle leggende, è sostanzialmente falsa. Ma ha perlomeno alcuni collegamenti con la realtà. È una storia interessante che ci dice molto su come si ottiene il consenso nella scienza. Ma dobbiamo cominciare dall'inizio.

L'idea che il clima della Terra non fosse stabile è emersa a metà del XIX secolo con la scoperta delle passate ere glaciali. A quel punto, una domanda ovvia era se le ere glaciali potessero tornare in futuro. La questione è rimasta al livello di speculazioni sparse fino alla metà del XX secolo, quando il concetto di "nuova era glaciale" è apparso nella "memesfera" (l'insieme dei memi pubblici umani). Possiamo vedere questa evoluzione utilizzando Google "Ngrams", un database che misura la frequenza delle stringhe di parole in un ampio corpus di libri pubblicati ( Grazie, Google !!).

 

Vedete che la possibilità di una "nuova era glaciale" è entrata nella coscienza pubblica già negli anni '20, poi è cresciuta e ha raggiunto un picco nei primi anni '70. Altre stringhe come "Earth cooling" e simili danno risultati simili. Si noti inoltre che il database "English Fiction" genera un picco per il concetto di "nuova era glaciale" all'incirca nello stesso periodo, negli anni '70. In seguito, il raffreddamento è stato completamente sostituito dal concetto di riscaldamento globale. Possiamo vedere nella figura sottostante come è arrivato il crossover alla fine degli anni '80.

 


Anche dopo che iniziò a declinare, l'idea di una "nuova era glaciale" rimase popolare e i giornalisti amavano presentarla al pubblico come una minaccia imminente. Ad esempio, Newsweek ha pubblicato un articolo intitolato "The Cooling World " nel 1975, ma il concetto ha fornito un buon materiale per il genere catastrofico. Ancora nel 2004, era alla base del film " The Day After Tomorrow. "

Questo significa che gli scienziati credevano che la Terra si stesse raffreddando? Ovviamente no. Non c'era consenso sulla questione. Lo stato della scienza del clima fino alla fine degli anni '70 semplicemente non consentiva certezze sul clima futuro della Terra.

Ad esempio, nel 1972, il noto rapporto al Club di Roma,  "I limiti alla crescita ", rilevava la crescente concentrazione di CO2 nell'atmosfera, ma non affermava che avrebbe causato il riscaldamento - evidentemente il problema non era ancora chiaro nemmeno per gli scienziati impegnati in studi sull'ecosistema globale. 8 anni dopo, nel 1980, gli autori del " The Global 2000 Report to the President of the US " commissionato dal presidente Carter, avevano già una comprensione molto migliore degli effetti sul clima dei gas serra. Tuttavia, non hanno escluso il raffreddamento globale e ne hanno discusso come uno scenario plausibile.

Il Global 2000 Report è particolarmente interessante perché fornisce alcuni dati sull'opinione degli scienziati del clima così com'era nel 1975. Sono stati intervistati 28 esperti ai quali è stato chiesto di prevedere la temperatura media mondiale per l'anno 2000. Il risultato è stato nessun riscaldamento o un riscaldamento minimo di circa 0,1 C. Nel mondo reale, tuttavia, le temperature sono aumentate di oltre 0,4 C nel 2000. Chiaramente, nel 1980, non esisteva un consenso scientifico sul riscaldamento globale. Sul punto si veda anche l'articolo di Peterson (2008 ) che analizza la letteratura scientifica degli anni Settanta. Trovava che la maggior parte degli articoli erano in favore del riscaldamento globale, ma anche una minoranza significativa sosteneva l'assenza di variazioni di temperatura o il raffreddamento globale.

Ora stiamo arrivando al punto veramente interessante di questa discussione. Il consenso sul riscaldamento della Terra non esisteva prima degli anni '80, ma poi è diventato la norma. Come è stato ottenuto?

Ci sono due interpretazioni che fluttuano oggi nella memesfera. Una è che gli scienziati hanno concordato una cospirazione globale per terrorizzare il pubblico sul riscaldamento globale al fine di ottenere vantaggi personali. L'altra che gli scienziati sono analizzatori di dati a sangue freddo e che hanno fatto come disse John Maynard Keynes: "Quando ho nuovi dati, cambio idea". 

Entrambi sono leggende. Quello sulla cospirazione scientifica è ovviamente ridicolo, ma il secondo è altrettanto sciocco. Gli scienziati sono esseri umani e i dati non sono un vangelo di verità. I dati sono sempre incompleti, affetti da incertezze e devono essere selezionati. Prova a invetare la legge di gravitazione universale di Newton senza ignorare tutti i dati sulla caduta di piume, fogli di carta e uccelli, e capirai cosa intendo. 

In pratica, la scienza è nata come una macchina per la costruzione del consenso. Si è evoluta proprio allo scopo di assorbire nuovi dati in un processo graduale che non porta (normalmente) al tipo di divisione partigiana tipica della politica. 

La scienza utilizza un procedimento derivato da un antico metodo che, in epoca medievale, era chiamato disputatio e che affonda le sue radici nell'arte della retorica dell'antichità classica. L'idea è quella di discutere i problemi mettendo uno di fronte all'altro i campioni delle diverse tesi e cercando di convincere un pubblico informato utilizzando i migliori argomenti che possono raccogliere. La disputatio medievale poteva essere molto sofisticata e, ad esempio, ho discusso la " Controversy of Valladolid " (1550-51) sullo stato degli indiani d'America. Le Disputstiones teologiche normalmente non potevano armonizzare posizioni veramente incompatibili, ad esempio convincendo gli ebrei a diventare cristiani (è stato tentato più di una volta, ma vi potete immaginare i risultati). Ma a volte portavano a buoni compromessi e mantenevano il confronto a livello verbale (almeno per un po').

Nella scienza moderna, le regole sono leggermente cambiate, ma l'idea rimane la stessa: gli esperti cercano di convincere i loro avversari usando i migliori argomenti che possono raccogliere. Deve essere una discussione, non un litigio. Le buone maniere vanno mantenute e la caratteristica fondamentale è saper parlare una lingua reciprocamente comprensibile. E non solo: i relatori devono concordare su alcuni principi di base della cornice della discussione.  Durante il Medioevo, i teologi discutevano in latino e concordavano che la discussione doveva essere basata sulle scritture cristiane. Oggi gli scienziati discutono in inglese e concordano sul fatto che la discussione debba essere basata sul metodo scientifico.

Nei primi tempi della scienza si usavano dibattiti uno contro uno (forse ricorderete il famoso dibattito sulle idee di Darwin che coinvolse Thomas Huxley e l'arcivescovo Wilberforce nel 1860). Ma, al giorno d'oggi, è raro. Il dibattito si svolge in convegni e seminari scientifici a cui partecipano parecchi scienziati che guadagnano o perdono "punti prestigio" a seconda di quanto sono bravi a presentare le proprie opinioni. Occasionalmente, un presentatore, in particolare un giovane scienziato, può essere "fatto alla griglia" dal pubblico in una piccola rievocazione delle cerimonie di raggiungimento della maggiore età dei nativi americani. Ma, cosa più importante di tutte, durante la conferenza si svolgono discussioni informali. Questi incontri non devono essere vacanze, sono funzionali allo scambio di idee faccia a faccia. Come ho detto, Si fa molta scienza nelle mense e davanti a un bicchiere di birra. Probabilmente, la maggior parte delle scoperte scientifiche inizia in questo tipo di ambiente informale. Nessuno, per quanto ne so, è mai stato colpito da un raggio di luce dal cielo mentre guardava una presentazione in power point.

Sarebbe difficile sostenere che gli scienziati siano più abili nel cambiare le loro opinioni di quanto i teologi medievali e gli scienziati più anziani tendano ad attenersi alle vecchie idee. A volte si sente dire che la scienza avanza un funerale alla volta; non è sbagliato, ma sicuramente un'esagerazione: le opinioni scientifiche cambiano anche senza dover aspettare che muoia la vecchia guardia. Il dibattito in una conferenza può decisamente spostarsi in una certa direzione sulla base della brillantezza di uno scienziato, della disponibilità di buoni dati e della competenza complessiva dimostrata. 

Posso testimoniare che, almeno una volta, ho visto qualcuno del pubblico alzarsi dopo una presentazione e dire: "Caro signore, ero di parere diverso fino a quando non ho sentito il suo discorso, ma ora mi ha convinto. Mi sbagliavo e lei è nel giusto. " (e vi posso dire che questa persona aveva più di 70 anni, i bravi scienziati possono invecchiare bene, come succede per il vino). In molti casi, la conversione non è così improvvisa e così spettacolare, ma succede. Ovviamente, il denaro può fare miracoli nell'influenzare le opinioni scientifiche ma, finché ci atteniamo alla scienza del clima, non ci sono molti soldi coinvolti e la corruzione non è diffusa come in altri campi, come in medicina.

Quindi, possiamo immaginare che negli anni '80 la macchina del consenso abbia funzionato come avrebbe dovuto e ha portato l'opinione generale degli scienziati del clima a passare dal raffreddamento al riscaldamento. È stata una buona cosa, ma la storia non è finita con questo. Restava da convincere le persone al di fuori del ristretto campo della scienza del clima, e questo non era ovvio. 

Dagli anni '90 in poi, la disputatio è stata dedicata a convincere sia gli scienziati che lavorano in campi diversi dal clima sia il pubblico informato. C'era un problema serio in questo: la scienza del clima non è una cosa da dilettanti, è un campo in cui l'effetto Dunning-Kruger (persone che sopravvalutano la propria competenza) può essere dilagante. Gli scienziati del clima si sono trovati a dover affrontare vari tipi di oppositori. In genere, scienziati anziani che si rifiutavano di accettare nuove idee o, a volte, geologi che vedevano la scienza del clima invadere il loro territorio e risentirsi per questo. Occasionalmente, gli avversari potevano segnare punti nel dibattito concentrandosi su punti ristretti che loro stessi non avevano completamente compreso (ad esempio, il "punto caldo troposferico" era un trucco alla moda). Ma quando il dibattito coinvolgeva qualcuno che conosceva abbastanza bene la scienza del clima, il destino degli avversari era segnato: finivano asfaltati facilmente.

Questi dibattiti sono andati avanti per almeno un decennio. Forse conoscete il libro del 2009 di Randy Olson, " Non essere uno scienziatcosì" che descrive questo periodo. Olson ha sicuramente capito il punto fondamentale del dibattito: devi rispettare il tuo avversario se vuoi convincere lui o lei, e anche il pubblico. Sembrava funzionare, lentamente. Si facevano progressi e il problema climatico diventava sempre più noto.

E poi, qualcosa è andato storto. Di brutto. Gli scienziati si sono trovati improvvisamente coinvolti in un altro tipo di dibattito per il quale non avevano alcuna formazione e poca comprensione. Vedete in Google Ngrams come l'idea che il cambiamento climatico fosse una bufala è decollata negli anni 2000 ed è diventata una caratteristica della memesfera. Notate come è cresciuto rapidamente: ha avuto un culmine nel 2009, con lo scandalo Climategate, ma non è diminuito in seguito.



Era un modo completamente nuovo di discutere: non più una disputatio. Niente più regole, niente più rispetto reciproco, niente più linguaggio comune. Solo slogan e insulti. Uno scienziato del clima ha descritto questo tipo di dibattito come come essere coinvolti in una "rissa da bar a mani nude". Da lì in poi, la questione climatica si è politicizzata e fortemente polarizzata. Nessun progresso è stato fatto e nessun progresso si sta facendo in questo momento.

Perché è successo? In gran parte, è stato a causa di una campagna di pubbliche relazioni professionale volta a denigrare gli scienziati del clima. Non sappiamo chi l'abbia progettata e pagata ma, sicuramente, esistevano (ed esistono ancora) lobby industriali che avrebbero perso molto se si fosse attuata un'azione decisa per fermare il cambiamento climatico. Chi ha ideato la campagna ha avuto vita facile contro un gruppo di persone tanto ingenue in termini di comunicazione quanto esperti in materia di scienze del clima. 

La storia di Climategate è un buon esempio degli errori commessi dagli scienziati . Se leggete l'intero corpus delle migliaia di email rilasciate nel 2009, da nessuna parte troverate che gli scienziati stavano falsificando i dati, erano coinvolti in cospirazioni o cercavano di ottenere guadagni personali. Ma sono riusciti a dare l'impressione di essere una cricca settaria che si rifiutava di accettare le critiche dei suoi avversari. In termini scientifici, non hanno fatto nulla di male, ma in termini di immagine è stato un disastro. Un altro errore degli scienziati del clima è stato quello di cercare di schiacciare i loro avversari rivendicando il 97% del consenso scientifico. Anche supponendo che sia vero (potrebbe anche essere), gli si è ritorto contro, dando ancora una volta l'impressione che gli scienziati del clima siano autoreferenziali e non tengano conto delle obiezioni degli altri. 

Permettetemi di citare un altro esempio di dibattito scientifico che è deragliato ed è diventato politico. Ho già citato lo studio del 1972 "I limiti della crescita". Era uno studio scientifico, ma il dibattito che ne seguì era al di fuori delle regole del dibattito scientifico. Una "frenesia alimentare" tra gli squali sarebbe una descrizione migliore di come gli economisti del mondo si sono uniti per fare a pezzi lo studio. Il "dibattito" si è rapidamente riversato sulla stampa ufficiale e il risultato è stata una demonizzazione generale dello studio, accusato di aver fatto "previsioni sbagliate" e, in alcuni casi, di pianificare lo sterminio dell'umanità. (Parlo di questa storia nel mio libro del 2011 " The Limits to Growth Revisited.") La cosa interessante (e deprimente) che possiamo imparare da questo vecchio dibattito è che non sono stati fatti progressi in mezzo secolo. Avvicinandosi al 50° anniversario della pubblicazione, possiamo trovare la stessa critica ripubblicata di nuovo sui siti Web, "previsioni sbagliate", e tutto il resto. 

Quindi, siamo bloccati. C'è una speranza per invertire la situazione? Difficilmente. La perdita della capacità di ottenere un consenso sembra essere una caratteristica dei nostri tempi: i dibattiti richiedono un minimo di rispetto reciproco per essere efficaci, ma questo si è perso nella cacofonia del web. L'unica forma di dibattito che rimane è quella rudimentale che vede i candidati presidenziali scambiarsi goffamente luoghi comuni tra loro ogni quattro anni. Ma un vero dibattito? Niente da fare, è sparito come le dispute tra teologi nel Medioevo.

La discussione sul clima, così come su tutte le questioni importanti, si è spostata sul Web, in gran parte sui social. E l'effetto è stato devastante sulla costruzione del consenso . Una cosa è guardare un essere umano dall'altra parte di un tavolo con due bicchieri di birra nel mezzo, un'altra è vedere un pezzo di testo cadere dal nulla come commento al tuo post. Questa è una ricetta per il litigio, e funziona così ogni volta. 

Inoltre, non aiuta che gli incontri e le conferenze scientifiche internazionali siano quasi scomparsi in una situazione che scoraggia gli incontri di persona. Gli incontri online si sono rivelati ore di noia in cui nessuno ascolta nessuno e tutti sono felici quando finisce. Anche se riesci a essere presente a un incontro di persona, non aiuta che il tuo collega ti appaia sotto forma di un contenitore di virus pericolosi, mascherato e da tenere sempre a distanza, se possibile dietro una barriera di plexiglas. Non è il modo migliore per stabilire un rapporto umano.

Questo è un problema fondamentale: se non si può costruire un consenso attraverso un dibattito, l'unica altra possibilità è usare il metodo politico. Significa raggiungere la maggioranza attraverso un voto (e si noti che nella scienza, come nella teologia, il voto non è considerato una tecnica accettabile di costruzione del consenso). Dopo il voto, la parte vincente può imporre la propria posizione alla minoranza usando una combinazione di propaganda, intimidazione e, a volte, forza fisica. Una tecnica estrema di costruzione del consenso è lo sterminio degli avversari. È stato fatto così spesso nella storia che è difficile pensare che non sarà fatto di nuovo su larga scala in futuro, forse nemmeno in uno remoto. Ma, a parte le implicazioni morali, il consenso forzato è costoso, inefficiente e spesso porta a stabilire dogmi. Quindi è impossibile adattarsi ai nuovi dati quando arrivano. 

Allora, dove stiamo andando? Le cose continuano a cambiare continuamente; forse troveremo nuovi modi per ottenere consenso anche online, il che implica, come minimo, non insultare e attaccare il tuo avversario fin dall'inizio. Per quanto riguarda una lingua comune, dopo che siamo passati dal latino all'inglese, potremmo ora passare a "Googlish", una nuova lingua mondiale che potrebbe forse essere strutturata per evitare scontri di assoluti - forse potrebbe essere solo priva di imprecazioni, forse potrebbe avere alcune caratteristiche specifiche che aiutano a creare consenso. Sicuramente serve una riforma della scienza che sbarazzi della corruzione dilagante in molti campi: il denaro è una sorta di consenso, ma non quello che vogliamo.

O, forse, potremmo sviluppare nuovi rituali. I rituali sono sempre stati un mezzo potente per ottenere consensi, basti pensare alla messa cristiana (la chiesa cristiana non si è ancora resa conto di aver ricevuto un colpo mortale dalle regole anti-virus ). I rituali possono essere trasferiti online? O avremmo bisogno di incontrarci di persona nella foresta come le "persone del libro" immaginate da Ray Bradbury nel suo romanzo del 1953 " Fahrenheit 451 "? Non lo possiamo dire. Non ci resta che cavalcare l'onda del cambiamento che, al giorno d'oggi, sembra essere diventata un vero tsunami. Galleggeremo o affonderemo? Chi puo 'dirlo? La riva sembra essere ancora lontana.


h/t Carlo Cuppini e "moresoma"