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mercoledì 5 marzo 2014

Collasso: come siamo messi?

Da “MAHB”. Traduzione di MR.

Apocalípico I di Mauricio García Vega


Abbiamo avuto notevoli dubbi sull'opportunità di pubblicare questo articolo che contiene molteplici inesattezze. Alla fine, ci è parso il caso di metterlo on line dato che è stato scritto da due autori ben noti nel campo degli studi sulle risorse naturali, Paul e Anne Erlich, autori fra le altre cose di quella "The Population Bomb" che è stato uno dei primi documenti (risale al 1968) a segnalare con molta forza il problema della sovrappopolazione. Qui, abbiamo un documento di un certo interesse nel suo tentativo di una valutazione generale della situazione. Purtroppo è un approccio che soffre, appunto, di molte inesattezze e non poche banalità. Quindi, lasciamo al lettore il compito di leggere questo articolo con una certa cautela e molta attenzione.  (U.B)


Collasso: come stanno evolvendo le nostre possibilità?
Di Paul R. Ehrlich e Anne H. Ehrlich

E' passato poco più di un anno da quando abbiamo provato a valutare la probabilità che l'odierna tempesta perfetta di problemi ambientali porterà a un collasso della civiltà. [1] Sembra un momento appropriato per vedere come gli eventi e le scoperte recenti possano aver cambiato le possibilità. Le tendenze nei principali motori di distruzione continuano inesorabili. L'Ufficio di Riferimento per la Popolazione, che nel 2012 ha previsto che la popolazione mondiale nel 2050 sarebbe stata di 9,624 miliardi di persone, ha previsto nel 2013 una popolazione di 9,727 miliardi di persone sempre per il 2050, come risultato di un leggero aumento del tasso di fertilità globale. C'è un lieve segnale di diminuzione dei consumi, col potere d'acquisto medio che globalmente cresce (ma con grandi differenze geografiche). Ci sono prove crescenti che il cambiamento climatico antropogenico non stia solo aumentando la temperatura media globale, ma che stia anche aumentando la probabilità di eventi atmosferici estremi. Quest'ultimo aspetto è stato particolarmente distruttivo in parti del “paniere” americano, essenziali per il mantenimento degli approvvigionamenti umani di cibo.

Ancora più preoccupante, sembra che ci sia un'escalation di scoperte di "retroazioni positive" come la fusione del ghiaccio marino artico, che diminuisce la riflettività e quindi accelera il riscaldamento mentre ironicamente causa sgradevoli blizzard nel nord degli Stati Uniti. Il riscaldamento porta anche ad ulteriore riscaldamento aumentando il flusso del gas serra metano nell'atmosfera mentre il permafrost si scioglie e probabilmente i clatrati di metano (complessi di ghiaccio e metano che stanno sotto agli oceani settentrionali) si disintegrano con il riscaldamento degli oceani. Altre retroazioni positive stanno chiaramente riducendo le possibilità di mantenere la distruzione del clima entro limiti “gestibili” (se questi non sono già stati superati). Le recenti analisi delle situazioni del clima e dell'agricoltura [2] dipingono un quadro sempre più oscuro. Infatti, ci sono prove crescenti di un possibile fallimento nella generazione di ulteriori aumenti nei rendimenti delle colture che sarebbero necessari per nutrire 9 miliardi di persone nel 2045, anche se la distruzione climatica non colpisse duramente l'agricoltura. Ci sono anche problemi inevitabilmente crescenti che colpiscono gli sforzi per ottenere le risorse minerali necessarie alla civiltà industriale.

Infine, ci sono segnali che le grandi potenze, specialmente Stati Uniti, Cina e Russia, sono in competizione per le risorse in modi che potrebbero portare a grandi guerre, probabilmente nucleari. Gran parte della competizione in un Medio Oriente disintegrato è collegata all'accesso al petrolio, che avremmo potuto gradualmente eliminare se le società si fossero orientate verso la sostenibilità. La situazione internazionale, come la storica Margaret MacMillan ha indicato, ha una rassomiglianza spaventosa con quella che ha preceduto la Prima Guerra Mondiale. [3] Stiamo per giungere al termine un lungo periodo senza guerre mondiali ma caratterizzato da cambiamenti tecnologici senza precedenti che i problemi ambientali e di risorse renderanno anche meno comprensibili. Mentre la globalizzazione continua in una situazione di intensificata competizione per le risorse, i movimenti reazionari tenuti insieme dalle nuove tecnologie e la mancanza di fiducia dilagano in un mondo ancora strutturato in stati nazionali con meccanismi deboli disponibili per affrontare minacce globali. Il crescente confronto militare fra Cina e Stati Uniti potrebbe finire col rendere tutti i problemi ambientali secondari. Però ci sono anche alcune buone notizie.

Il consumo totale di energia negli Stati uniti è diminuito sotto il Presidente Obama a causa di un costante aumento dell'efficienza, specialmente dei veicoli. Il consumo statunitense di carbone è sceso perché la produzione di elettricità è stata piatta e il ruolo del carbone in essa è stato ridotto, rimpiazzato dall'uso del gas naturale (che, anche tenendo conto delle emissioni per perdite nella produzione e nel trasporto, rimane molto meglio del carbone in termini di cambiamento climatico). Naturalmente, questo ha senso soltanto come “ponte” temporaneo verso un mix a minore intensità di carbonio. La produzione statunitense di petrolio sale, ma ma questo potrebbe essere un fenomeno di breve durata. Anche così, bruciare petrolio interno è meglio sia dal punto di vista economico sia ambientale rispetto a bruciare petrolio importato. E anche se l'Australia intende continuare ad esportare enormi quantità di carbone, con costi enormi per l'ambiente australiano e quello mondiale, il governo cinese si sta rapidamente avviando verso una rapida riduzione dell'uso del carbone e l'India è costretta dalle proprie finanze in quella direzione. C'è anche un rincuorante diffusione della tecnologia solare nei paesi poveri, che fra le altre cose da alle persone un maggiore accesso alle comunicazioni moderne (la qual cosa, naturalmente, può essere usata sia bene che male!).

Le zone “protette” (aree in cui la pesca è proibita) hanno mostrato un'incredibile capacità di rigenerare la pesca di prossimità. Ma, tristemente, le zone non possono tenere sotto controllo inquinamento, acidificazione o cambiamento della temperatura, quindi potrebbero rapidamente perdere il loro valore. Il Brasile ha fortemente rallentato la deforestazione in Amazzonia con una combinazione di buone politiche e con la loro buona applicazione. E le prospettive della popolazione per gli Stati Uniti sono leggermente meno fosche: la proiezione del 2012 per il 2050 di 442,6 milioni è scesa nel 2013 a 399,8. Ma ciò che è lampante è che questi cambiamenti non sono neanche lontanamente grandi o rapidi abbastanza da incidere realmente sul problema. Inoltre, non ci sono piani né alcuna tendenza nella direzione di fare la scelta più cruciale necessaria per diminuire le possibilità di collasso: un rapido ma umano sforzo di ridurre la scala di tutta l'impresa umana mettendo fine alla crescita della popolazione, dando inizio al terribilmente necessario declino generale dei numeri e limitare drammaticamente il consumo dei ricchi. Non c'è nemmeno discussione sugli elementi ovvi del sistema socio-economico che supportano una struttura che incorpora un bisogno di crescita perpetua – essendo la riserva frazionaria bancaria un obbiettivo classico che richiede un'inchiesta in questo contesto. Virtualmente ogni politico o economista pubblico presuppone ancora acriticamente che ci siano dei benefici in un'ulteriore espansione economica, anche fra i ricchi. Pensano che la malattia sia la cura.

Qualche anno fa abbiamo avuto un dissenso col nostro amico Jim Brown, un eminente ecologista. Gli abbiamo detto che pensavamo che ci fosse un 10% di possibilità di evitare il collasso della civiltà ma, a causa della preoccupazione per i nostri nipoti e pronipoti, eravamo disposti a lottare per farlo diventare un 11%. Lui ha detto che la sua stima delle possibilità di evitare il collasso era solo del 1%, ma che stava lavorando per farlo diventare 1,1%. Tristemente, le tendenze e gli eventi recenti ci fanno pensare che Jim possa essere stato ottimista. Forse adesso è il momento di parlare di una qualche forma di collasso presto, nella speranza di fare un “atterraggio” relativamente dolce. Questa potrebbe essere l'unica cosa che potrebbe preservare la capacità della Terra di sostenere l'Homo sapiens in un futuro post apocalittico.

[1] Ehrlich PR, Ehrlich AH. 2013. Può essere evitato un collasso della civiltà? Atti della Royal Society B http://rspb.royalsocietypublishing.org/content/280/1754/20122845.
[2] http://vimeo.com/78610016; http://www.youtube.com/watch?v=TFyTSiCXWEE; Grassini P, Eskridge KM, Cassman KG. 2013. Distinguere fra miglioramenti del rendimento e plateau del rendimento nelle tendenze storiche di produzione delle colture. Nature Communications 4:2918 | DOI: 10.1038/ncomms3918 |www.nature.com/naturecommunications.
[3] http://bit.ly/K4rf8G



venerdì 28 febbraio 2014

Guerre in prestito

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

di Antonio Turiel




Cari lettori,

Sembra che questo 2014 degeneri rapidamente verso una situazione di conflitto e violenza generalizzati in tutto il globo. Disgraziatamente, la violenza è una cosa molto comune nel nostro mondo nelle sue molteplici manifestazioni, da quelle più individuali a quelle più collettive. La cosa grave è che si sta allargando a paesi dove da tempo non si vedeva (anche se non è mai stata dimenticata).

Proprio adesso uno dei fuochi più caldi dell'attenzione occidentale si trova in Ucraina, dove la reiterata occupazione delle strade da parte di un movimento che brandisce la bandiera della UE, pro occidentale e che esige un cambiamento di governo, è finito per portare ad una sanguinosa repressione da parte della polizia e la logica escalation di violenza che, negli ultimi giorni, ha portato il presidente del paese a scappare verso la regione orientale del paese con simpatie per la Russia. Molti livelli si sovrappongono nel conflitto in Ucraina, alcuni interni (la crisi economica, la disoccupazione, l'insoddisfazione per la mancanza di riforme dalla Rivoluzione Arancione) ed altre esterne, con una forte presenza della partita a scacchi geopolitica fra Russia e Stati Uniti (la Russia vede con enorme sospetto la presenza di un paese pro-occidentale proprio alla sua frontiera, mentre l'Europa vede una grande opportunità di allargarsi verso est e per gli Stati Uniti qualsiasi iniziativa che limiti il potere russo è benvenuta). Non è estranea alla crisi in Ucraina l'entrata in funzione del gasdotto Nordstream lo scorso dicembre. Se avete memoria, ricorderete che durante gli ultimi inverni la Russia ha minacciato di tagliare la fornitura di gas naturale all'Ucraina, poiché questo paese non pagava i prezzi che volevano i russi e alla fine gli avrebbe tagliato la fornitura per qualche giorno, ma in seguito ha dovuto tornare sui suoi passi visto che quello stesso gasdotto, che attraversa il territorio ucraino, è lo stesso che porta a un buon cliente: la Germania. E tendere troppo quella corda porterebbe la nazione teutonica a cercare altre modalità di approvvigionamento, forse più care, ma più sicure. Tutto ciò è finito col nuovo gasdotto, che attraversa il mar Baltico e va direttamente dalla Russia alla Germania. Pertanto non è casuale che quest'anno non sia stata messa in scena la minaccia del taglio della fornitura, visto che i russi possono chiudere tranquillamente il rubinetto e il governo ucraino ha dovuto gestire la scarsità come ha potuto, nonostante la crisi e lo scontento popolare. Significativo è anche che proprio una delle contropartite offerte dalla Russia durante queste settimane confuse è la fornitura di gas all'Ucraina a buon prezzo.

Ma tornando agli avvenimenti sulle strade di Kiev e di altre città ucraine, è difficile sapere con precisione cosa succede, perché l'informazione diffusa dai media occidentali e estremamente di parte. Sembra che una parte dei manifestanti del Majdán sia equipaggiata quasi militarmente, in mezzo ad una massa di innocenti cittadini che vogliono solo esprimere la loro stanchezza per una situazione che non migliora (e che alla fine si ritirano all'aumentare della violenza). Il conflitto sembra degenerare verso una guerra civile più o meno aperta, in modo analoga a quanto è avvenuto in Siria, di cui è altrettanto impossibile avere una visione affidabile di ciò che succede in questo momento (vi sarete resi conto che ultimamente di Siria non si parla quasi più nei media: praticamente è diventato un non-tema, nonostante che, ovviamente, in quel paese la guerra civile continua).

Sembra che anche in Venezuela l'agitazione aumenti, anche se, di nuovo, è molto difficile in Occidente (è ironico chiamare Occidente paesi che si trovano più a est o a nord del Venezuela) accedere a informazioni affidabili su ciò che sta realmente avvenendo. A margine dei dettagli, praticamente inafferrabili da qui, di nuovo si intuisce una situazione simile a quella dell'Ucraina: da un lato c'è un governo emerso dalle urne che si confronta con una situazione interna molto complicata che porta spesso a fughe in avanti e a misure di carattere autoritario, dall'altro un certo livello di protesta dei cittadini istigata dallo scontento, in mezzo alla quale si nasconde una forza emergente, di dimensione molto inferiore ma sempre meglio armata, con la pretesa di deporre il governo con qualsiasi mezzo. Se si tratta di un processo completamente interno o istigato dall'esterno è complicato da sapere, anche se sicuramente c'è un mix di entrambe le cose: problemi interni di cui agenti esterni (e di nuovo molte dita indicano gli Stati Uniti) tentano di approfittarne.

Tra i vari fattori interni che contribuiscono al malessere in Venezuela è importante sottolineare la sempre meno dissimulata diminuzione della produzione di petrolio e delle sue esportazioni, come mostra il grafico seguente (preso come al solito dal sito di Flujos de Energía); tenete conto che arriva solo fino al 2012, quindi la situazione adesso potrebbe essere sensibilmente peggiore:


































Se confrontate questo grafico con quello di altri paesi che si sono visti coinvolti in processi simili (e che abbiamo commentato nel post corrispondente) si direbbe che al Venezuela restino per lo meno cinque anni prima che comincino i problemi gravi col crollo dei proventi petroliferi. Tuttavia, circa un terzo del petrolio prodotto dal Venezuela in questo momento è greggio extra pesante, dall'EROEI molto basso, il che significa che l'energia netta proveniente dal petrolio venezuelano è abbastanza inferiore rispetto a quanto indicato dal volume lordo e questo in particolare implica che il rendimento economico è abbastanza inferiore di quanto ci si aspetterebbe. Questo fatto probabilmente influisce sui problemi della nazione caraibica. Non a caso, gli Stati Uniti importano petrolio dal Venezuela ed hanno grande interesse a che il petrolio continui a fluire (nonostante i canti della sirena che parlano di una finta indipendenza energetica degli Stati Uniti). Pertanto non sorprende che, in mezzo alla confusione regnante e forse in parte provocandola, alcune personalità politiche statunitensi stiano chiedendo già adesso ad Obama di invadere il Venezuela.

Nel frattempo, lo Yemen, paese nel mirino, si avvicina con passo fermo al suo collasso finale; in quel paese sono frequenti gli attentati, mentre il potere politico cerca di frenare la sua inevitabile decomposizione, con una misura di decentralizzazione (dividere il paese in sei stati confederati, nonostante la sua piccola estensione). Dato il rapidissimo crollo delle esportazioni petrolifere di un paese tanto dipendente dall'esterno, il disastro è più che prevedibile: è una certezza. Essendo un paese confinante con la decisiva Arabia Saudita, è ovvio che non sarà permesso che il paese esploda incontrollatamente e a un certo punto le truppe saudite, appoggiate direttamente o indirettamente dagli Stati Uniti, entreranno nel paese in modo simile a come hanno già fatto in Bahrein nel 2011 (proprio in tempo perché si potesse correre il Gran Premio di Formula 1 di quell'anno, BAU a oltranza).

Per parte sua, l'Egitto non si è stabilizzato dopo le rivolte della fame del 2011 (cinicamente battezzate “primavera araba”) e l'esercito resiste nel cedere il potere alla società civile di un paese sovrappopolato (85 milioni di abitanti) e impoverito. Per finirlo, i piani dell'Etiopia, altro paese sovrappopolato (92 milioni) e impoverito, di fare una diga nell'Alto Nilo minaccia di scatenare una vera e propria guerra per l'acqua (come abbiamo già spiegato, un'ulteriore forma delle guerre della fame) mentre in Egitto si privatizza l'accesso all'acqua e si da un accesso preferenziale alle classi benestanti: una forma ancora più vile della Grande Esclusione in un paese assetato e affollato. Tanti problemi possono finire soltanto in disastro. Ma l'Egitto è una enclave strategica per la presenza del Canale di Suez, quindi c'è aspettarsi che o prima o dopo le truppe straniere facciano la loro apparizione, perlomeno nella fascia del canale, mentre il resto del paese si unisce nel caos e nella miseria.

Tutti gli esempi sopra mostrano casi di paesi con gravi problemi interni tutti acutizzati dal proprio declino energetico (con l'eccezione dell'Ucraina, tutti sono o erano fino a poco fa esportatori di petrolio) e in tutti grandi potenze straniere svolgono o finiranno per svolgere un ruolo primario, a volte lottando fra loro per mezzo di bande locali. Sono le nuove Proxy Wars o guerre sussidiarie: guerre scatenate da altri a beneficio non dichiarato (e a volte sconosciuto agli stessi combattenti) di interessi delle grandi potenze, una tradizione che data all'inizio del capitalismo e che ha raggiunto il suo apice nel ventesimo secolo. Sono le nuove guerre in prestito che disgraziatamente pare che caratterizzeranno il nostro declino energetico.

Ma il problema non sono solo queste guerre in prestito che si scateneranno nel territorio dei principali produttori di petrolio e di altre risorse. Anche senza arrivare all'intensità di una guerra, l'instabilità cresce su scala mondiale. Per esempio, la popolazione di un paese amante del calcio come il Brasile si ribella contro le spese del Mondiale di Calcio, odiose in un paese sottomesso a molte restrizioni e tagli (di nuovo, la parabola del lago risulta opportuna). Ricordate come anche in Argentina ci sono state rivolte e saccheggi solo un paio di mesi fa. Intanto, l'economia della Cina sta rallentando e cresce lo scontento popolare, visto che viene sovvertito il contratto sociale implicito (non richiedete democrazia e vi lasceremo prosperare e anche arricchire, se lavorate duro). E' questione di tempo che anche lì scoppi una rivolta.

E cosa succede nell'Europa occidentale? La Grecia soffre, il Portogallo subisce, l'Italia delira, l'Irlanda sembra abbastanza tranquilla, la Francia langue e la Germania spera... E in quanto alla Spagna, certi giorni ho l'impressione che stiamo facendo un conto alla rovescia collettivo, silenzioso, che non so bene dove ci porterà.

Saluti.
AMT